Rosalba Zuccaro – galleria arte contemporanea – Ciampino 2006
La poetica del segno in Guido Strazza e Marina Bindella
Rosalba Zuccaro
Provenendo dal caos estraniante e frenetico di un sempre più invasivo e mistificante
mondo di tumultuose comunicazioni figurate, varcando la soglia dell’ambiente che accoglie, ora, le opere di Guido Strazza e di Marina Bindella, dopo un attimo di pausa e di silenzio, viene spontaneo pensare: “ e quindi uscimmo a riveder le stelle”. L’impatto visivo è emozionante: l’animo intuisce subito la presenza di una realtà rigeneratrice; la percezione delle immagini suscita dimensioni altre di conoscenza. La riflessione si avvia lentamente a individuare le intenzioni e le modalità da cui scaturiscono quelle forme che mostrano una diversa coscienza dell’essere e del mondo e che dicono di una fantasia che è sia mediazione tra il sensibile e l’intelletto sia rivelazione di nuovi saperi.
Le opere, estranee agli attuali, imperanti canoni iconografici, sono realizzate con tecniche incisorie in bianco e nero e attestano, con la loro distinta qualità, intesa quale ‘differenza’ insita nell’arte, l’autentica modernità dell’incisione in quanto mezzo di sempre fertile creatività in una imprescindibile compenetrazione tra il fare, il pensare e l’immaginare. Tale compenetrazione costituisce una coraggiosa consapevolezza e si distacca da una mera concettualizzazione dell’arte, da un’assunzione dell’arte come idea dell’arte, come proposizione linguistico-verbale analitica.
Inoltre, la scelta di accogliere il rischio di confrontarsi con tecniche di grande tradizione e di severo impegno, dichiara l’importanza assegnata a certe esperienze del passato, vicino e lontano; conferma il potere duraturo ‘di presenza’ delle opere della storia in quanto disponibili ad essere recepite nel tempo da altre coscienze le quali si connettono ad esse non nello spirito di un nostalgico rispecchiamento o di una provocatoria dissacrazione, ma nel desiderio e nell’urgenza di incentivare e aprire orizzonti di ricerca. Gli splendidi risultati raggiunti palesano la sicura vitalità e dignità di queste incisioni in un’epoca confusa e asfissiata dalla mania di novità perlopiù ingannevoli, dispersive ed effimere: un impegno ponderato fonda la loro attualità, come facoltà di conoscere e riconoscersi, come capacità di comporre in unità elementi da osservare e attraverso i quali osservare con altro sapere.
Dopo aver rilevato che per Strazza e Bindella la prima tecnica dell’arte è l’ansia di verità, l’integrità mentale, la tensione di spiritualità che è nell’animo, nell’occhio e nella mano, e che si materializza nell’etica della forma, è possibile dire che la scelta della tecnica specifica dell’incisione, di un modo “acuto e duro ” di guardare, non costituisce una difesa estrema di una pratica, bensì, come già accennato, la scoperta delle potenzialità di quella pratica in rapporto alle istanze del loro pensiero artistico e allo slancio di fortificazione della fantasia la cui sfida è quella di scontrarsi con le limitazioni stesse della tecnica.
Strazza, dedito, perlopiù, con un appassionato e raro ricercare, ai procedimenti calcografici, diretti e indiretti, e Bindella, tesa, con ammirevole e proficuo cimento, ad affrontare la xilografia, affidano al segno la costruzione delle loro immagini ed indagano criticamente i mezzi e i modi per conferire ai propri segni un valore espressivo, con problematiche sempre aperte, oltrepassando codici prefissati.
Nei suoi lucidi scritti, avveduti studi di intelligenza percettiva, Strazza si sofferma spesso a ragionare sui segni e, tra l’altro, nota, in occasione di un corso di incisione a Matera nel 1978 ( corso svolto, pure, da Bindella nel 2004, sempre al Circolo La Scaletta ): “Il problema primario non sarà, dunque, cosa vogliamo raccontare con un segno, ma come fare un segno e perché quel segno e non un altro” ( Strazza in Lucania, Roma, Edizioni della Cometa, 1990, pag.15 ). La frase, mentre sottolinea la necessità di chiarezza nella volontà creatrice , indica la sostanza primaria, espressiva ed autonoma, del segno rispetto a componenti di racconto o di comunicazione. I segni sono orientati, innanzitutto, non verso la funzione di significare o di simboleggiare qualcos’altro, ma verso la funzione di “presentificare” la loro realtà, cioè verso l’ “ astanza”, nell’accezione di Cesare Brandi.
I segni scovano un’infinità di segni, sviluppati da punti, linee, tracciati multipli: netti o fluidi, minuti o ampi, precisi o sfumati, accelerati o decelerati, caratterizzati dai vari strumenti usati, dai gesti compiuti, dai supporti, dall’inchiostrazione, dalla pulitura della lastra, dalla stampa che li fissa sul foglio di carta, dal tipo di carta, dall’impaginatura della lastra sul foglio a vivo margine o con un margine bianco, essi costituiscono alfabeti grafici in divenire, diversamente combinati e strutturati a seconda, appunto, delle esigenze. Il segno, così, propone il suo valore grafico-luministico-spaziale: il suo significato si identifica con la qualità che esso esprime in sé come forma alla quale è consustanziale il contenuto manifesto dell’immagine che appare immediato alla coscienza, mentre successivi e attinenti ad altri aspetti di conoscenza sono i messaggi e le comunicazioni che l’immagine stessa convoglia o può convogliare nella sua sostanza storico-culturale e che attengono alla critica come esegesi semantica.
Le immagini realizzate da Strazza e Bindella svelano, spesso, l’elaborazione di segni, di atmosfere, di eventi naturali: sono memorie, fantasmi stratificati che affiorano nel processo creativo che volge la rappresentazione dei fenomeni a presentazione di un’altra realtà. Il segno, allora, congiunge e, nello stesso tempo, separa la fenomenalità dell’esistente dall’assolutezza dell’arte.
Scrive Milan Kundera nella sesta parte de Les testaments trahis (1993): “L’art moderne: une révolte contre l’imitation de la réalité au nom des lois autonomes de l’art. L’une des premières exigences pratiques de cette autonomie: que tous les moments, toutes les parcelles d’une oeuvre aient une égale importance esthétique.” E proprio ogni segno acquista, in queste immagini, un suo peso specifico nella recezione dell’opera come un intero.
Evidente è nelle incisioni in mostra la rinuncia ai facili estetismi, agli effetti speciali, ai virtuosismi del mestiere, alle suggestioni accattivanti che attraversano vanamente tanta ‘grafica’ contemporanea. In esse l’ars mechanica, le difficoltà del lavoro sono incorporate e come sommerse nella fantasia che mostra una sorta di ‘grazia’, intesa quale splendido dono di far apparire facile ciò che è difficile, di trasformare una tecnica in poesia nel proposito genuino di esprimere un proprio sentire estetico in cui i segni accordano o contrappongono valori di luci e di ombre, di bianchi e di neri, costruiscono spazi equilibrati o instabili, scarti di energie, forze dinamiche o pacate distese, variazioni ritmiche, ampie stesure o atomizzazioni pulviscolari.
In rapporto a quanto detto, analogo mi sembra il processo di ricerca messo in atto da Strazza e, anche sulla sua scia, da Bindella, sollecitata alla xilografia proprio da Strazza negli anni Novanta: osservazione attenta dei segni della natura, dell’animo e della storia; sperimentazione curiosa degli strumenti atti a inverare i propri intenti segnico-espressivi; concentrazione a sondare le variazioni luministiche del bianco e del nero; strutturazione di una concezione visiva calibrata tra razionalità ed emotività.
Diverse sono, comunque, le fonti di formazione ( connesse, pure, a fattori generazionali ), l’entità dell’iter compiuto, la morfologia degli esiti conseguiti.
Nel duplice aspetto della prassi e della riflessione critico-teorica, Strazza dipana un percorso organico e diramato del segno, originato dalle avanguardie storiche e subito sensibilizzato da una declinazione informale lirica, pronta ad accogliere l’accidente casuale ma funzionale all’idea visiva. Nel succedersi del tempo, costruendo immagini nuove ma con coerenza interna, il segno traccia sentieri segreti di fluide linee nere, emerse dal solco inciso, solitarie o intersecate, che conquistano sul bianco del foglio una spazialità ampia e una sottile modulazione chiaroscurale; talora, invece, esso definisce campi geometrici disponibili ad accogliere lo scarto dinamico di trame fitte o diradate che producono inedite intensità e trasparenze luministiche. L’analisi dei rapporti tra gesto e segno conferma l’interesse di Strazza per la musica: essi sono indagati come note che suonano diversamente a seconda del tocco, della durata, dell’altezza, del timbro o degli strumenti; che creano accordi e melodie differenziate a seconda delle tonalità, delle combinazioni, dei ritmi; che compongono armonie complesse, forme compiute che suscitano lo stupore di eventi improvvisi. Tutte le variazioni di un tema sono saggiate valutando con misura la cadenza dei suoni e delle pause quali opzioni flessibili e mutevoli di luci e di ombre nella declinazione dell’immagine, governata da un ordine interno nella sequenza delle battute.
Il segno xilografico di Bindella, nutrito di riferimenti storici accortamente rielaborati, estraneo ad ogni inflessione espressionista, ma incline a partecipare stati d’animo, procede da un lento, laborioso scavo che sedimenta e temporalizza il suo essere nell’opera: ampie e lunghe zone nere risparmiate dialogano con frantumazioni pulviscolari bianche attivando, con andamenti variati, tutta la superficie, satura di energia. Segni macroscopici e segni microscopici invadono il piano con una concezione spaziale non univoca: a volte espansa, senza limiti, a volte addensata e quasi occlusiva, essa, talora, si arcua, si flette, oltrepassando le due dimensioni del piano e inabissandosi in gironi concentrici o a spirale. Campi bianchi di abbaglianti cristallizzazioni, minute schegge, battiti arrestati, ragnatele leggere, sottili filigrane fanno da contrappunto, nelle xilografie a due lastre, a vigorose presenze di nero denso, appena toccato, nel suo manto vellutato ed omogeneo, da impercettibili vibrazioni. Nell’attesa che l’immagine mentale affiori alla visione, Bindella, con rigoroso controllo, gradua la forza e la frequenza del gesto che scava graduando la quantità e la qualità del segno; costruisce partiture fitte di notazioni che, con alterni impulsi, si frammentano in esplosioni inattese, sfumate nel chiaroscuro, o, ancora, conferisce a luoghi dilatati di bianchi allucinati o di neri cupi un senso affine di tensione drammatica tra libertà astrattizzante e forza evocativa.
Le affinità e le divergenze nelle modalità costruttive di Strazza e di Bindella appaiono, pure, nelle eccezionali edizioni di libri d’arte in cui l’incontro tra il segno-parola e il segno-segno genera uno scambio sorprendente, un’empatia mirabile nei ritmi sintattici e nei toni espressivi. Considerato l’originario scarto di significazione tra il leggibile e il visibile, come la poesia dà nuova risonanza e valenze impreviste alle parole del linguaggio comune, così l’immagine ottica conferisce valori altri ai segni visivi dell’esistenza fenomenica, istituendo un forte margine di distacco.
Ancora alcune parole ricorrenti in Guido e condivise da Marina – ‘ricercare’, ‘ordinare’, ‘riconoscere’, ‘amare’ segni – mi inducono a concludere che le incisioni di tale mostra sono manifestazioni de “l’amor che muove il sole e l’altre stelle”, amore inteso come inesauribile aspirazione dell’uomo al sapere, al fare, al conoscere, con integrità e trasparenza mentale, amore inteso come cammino difficile e solitario verso la ‘differenza’ dell’arte.