Giovanni Accame – Mostra biblioteca sormani – Milano 1999

 In Testi Critici

All’interno del proprio lavoro, Marina Bindella sembra condurre una sfida: trarre, da una tecnica così severa e concreta come la xilografia, l’immagine della trasparenza, l’apparire della luce. E’ infatti una luce, come idea e come fenomeno, che si pone all’origine delle sue opere. Qualunque sia il riferimento accennato o il soggetto dichiarato, molto spesso relativi alla natura e alle sue infinite varietà formali, è in realtà la luce che diviene protagonista, che ci afferra e ci conduce al centro di quelle emozioni così palesemente racchiuse in questi fogli. Emozioni intime dell’artista, alle quali si aggiungono quelle procurate dallo svolgersi del lavoro che, proprio per i passaggi a cui la tecnica obbliga, richiede quella particolare attenzione dalla quale può scaturire l’inatteso. Su questo aspetto è anzi opportuno soffermarsi, perché nello specifico caso della pratica xilografica qui utilizzata, tecnica e pura espressività si legano in un intreccio indivisibile. La gestualità, il libero fluire dei segni dominanti, che vediamo molto spesso in questi fogli è il risultato di uno scavo niente affatto veloce. Lo slancio, la leggerezza di una linea che si muove rapida e vibrante, è un risultato voluto, pensato e perseguito con tenacia, non accade cioè con l’automatismo che può avere la matita sulla carta. Di maggiore scioltezza esecutiva, dispongono invece alcuni addensamenti segnici che, in alcuni casi, si diffondono sulla superfici sottostante allo svolgimento delle figure principali.

Nel lavoro di Marina Bindella, nella sua ricerca di una luce che si concretizza nell’idea di trasparenza della superficie, troviamo rimandi di quelle esperienze storiche che, della luce hanno fatto una loro specifica ragione di studio, come il neoimpressionismo di Seurat e Signac, o un elemento di trascendenza come per il simbolismo di Moreau e Redon. Anche una famosa opera di Balla come Lampada ad arco è nella cultura di queste opere, che però non scivolano mai in derivazioni o citazioni dirette. Vi è, appunto, una cultura affine, affine anche nelle differenti anime storiche che in Marina troviamo associate. L’approccio scientifico del neoimpressionismo è qui presente nel rigore tecnico, ma anche nella passione della sua pratica. Lo spiritualismo di Moreau e Redon lo si trova nella continua ricerca di smaterializzazione, di superamento del puro dato fisico. Una tensione trascendente che, forse anche in modo inconscio, agisce nello sviluppo verticale dei fenomeni luminosi. Luci di varia natura e variamente risolte, ma sempre protese a illuminare un oltre ancora avvolto nell’oscurità, a diffondersi con la rapidità di un bagliore o nella lenta penetrazione delle atmosfere. Tra i tanti fogli voglio qui ricordare Luce di testa del 1996, una xilografia che racchiude quasi tutte le proprietà caratteristiche di questi lavori. La luce ha in questo caso sia la potenza di nucleo irradiante, sia la trasparenza luminosa dei diversi stadi di un’oscurità che si ritrae e si trasforma con l’avanzare del chiarore. In questo divenire primordiale, la luce, potenziata da puri seni di energia che salgono dal suo centro, si materializza come fenomeno e apparizione. Una modalità dell’apparire che ritroviamo sempre in queste opere, dove il fenomeno luminoso, come ad esempio avviene anche per Luce in abisso del 1997, supera e sovrasta i semplici dati naturali e la loro descrizione, per acquistare un significato profondo. La luce, come qui viene intesa, non è un accadimento ciclico e transitorio, ma una presenza insopprimibile, una costante interiore che è al tempo stesso luce ed esperienza della luce.

Giovanni Maria Accame

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