Rosalba Zuccaro gabinetto stampe alessandria 2007
Ritmi di luce
Marina Bindella espone, ora, negli spazi del Gabinetto delle Stampe Antiche e Moderne di Alessandria, una pregevole sequenza di incisioni xilografiche, selezionate con efficace sintesi, che datano dal 1994 al 2007.
In realtà, più lontana nel tempo è la sua frequentazione del fare artistico; in particolare, la sperimentazione delle tecniche calcografiche (dirette e indirette) e xilografiche inizia all’incirca nel 1983.
Fondamentale è, comunque, per valutare lo spessore della sua formazione e della sua ricerca, ricordare il precoce e forte interesse per la cultura slava e per la storia dell’arte, materia in cui Bindella si laurea nel 1982 presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Le diverse declinazioni dell’astrazione delle avanguardie storiche, soprattutto nella direzione delle poetiche “liriche”, senza, però, trascurare quelle “geometriche”, costituiscono motivo di sue prime, approfondite riflessioni sulla concezione dell’arte che, recepita una avveduta distinzione tra “imitazione” e “creazione”, si apre verso orizzonti più ampi di presentazione di realtà visive nuove nell’autonomia dell’opera e nell’individualità dell’espressione.
In tale contesto si possono subito rilevare (limitandoci, per l’occasione, alla non certo agevole pratica xilografica, privilegiata a partire dal ’90) la passione e la determinazione, lo slancio e la disciplina, l’emozione e il rigore che, con sagace e fertile continuità, Marina ha profuso e profonde nel suo lavoro, ricco delle sollecitazioni dettate dall’intelligenza, dall’animo, dalla sapienza fabrile, dalle intuizioni interiori e dalle esperienze esterne del percepibile, naturale e storico, originalmente elaborate.
Con la scelta della xilografia (su legno di testa e di filo, linoleum, PVC, ecc.), tecnica dura e severa, un cimento che diventa una sorta di sfida, di scontro con le limitazioni insite nella tecnica stessa, Bindella assume come ambito di indagine le gradazioni di bianco e di nero ottenute, come noto, tramite rapporti differenziati tra scavi e superfici risparmiate, tra togliere e lasciare, tra cavità e piani, che configurano punti, linee e campi di luce e di ombra. Gli strumenti adoperati per lo scavo (bulini, sgorbie, scalpelli da ebanisteria, punte multiple, ecc.) le permettono di ottenere segni tipologicamente diversificati, anche in relazione ai gesti compiuti, variati nell’intensità, nell’estensione e nella frequenza.
La lastra, così, e, poi, il foglio di carta che accoglierà la stampa si tramutano da luogo di potenzialità indefinite a luogo di manifestazione di specifici pensieri formali che contengono la sostanza inventiva ed il significato dell’agire e palesano, attraverso l’operazione del rendere visibile, la coscienza di sé e del proprio essere nel mondo, la responsabilità della “visione” come forma di conoscenza che si partecipa attraverso la poetica del fare. Bindella mette in atto una fenomenologia della percezione dinamica, moderna, in sintonia con il divenire del vedere. Radicata nella storia, consapevole del presente e proiettata verso il futuro, ella possiede una forte consapevolezza critica e una acuta capacità di discernere tra i gesti e i mezzi che concretizzano segni che, in feconda metamorfosi, nella complessità dei modi di procedere, dicono sé stessi nell’immagine che compongono e che offrono alla ricezione altrui.
Il segno di Marina procede da un lento, laborioso scavo che sedimenta e temporalizza il suo essere nell’opera: ampie zone nere risparmiate dialogano con frantumazioni pulviscolari bianche attivando, con ritmi e andamenti diversificati, tutta la superficie, satura di energia. Segni macroscopici e segni microscopici animano il piano con una concezione spaziale non univoca: a volte espansa, senza limiti, a volte addensata e quasi occlusiva, essa, talora, si arcua, si flette oltrepassando le due dimensioni del piano in gironi concentrici o a spirale. Campi bianchi di abbaglianti cristallizzazioni, minute schegge, battiti arrestati, ragnatele leggere, sottili filigrane fanno da contrappunto, nelle xilografie a due lastre, a vigorose presenze di nero denso, appena toccato, nel suo manto vellutato, da impercettibili vibrazioni o disteso in larghe linee, rette e curve, che si incrociano e percorrono altri sentieri.
Sono queste alcune peculiarità ricorrenti negli anni: un’osservazione più analitica rivela che l’itinerario creativo di Marina, caratterizzato da una inesauribile scoperta di alfabeti, di unità segniche, di trame, propone una ricerca morfologica quanto mai articolata sia nel gioco della trasformazione degli elementi primari sia nelle intenzioni delle loro organizzazioni sia nella conformazione spazio-luministica delle immagini. Mediando un termine nell’accezione musicale, l’armonia dell’intero percettivo è costituita dalla combinazione simultanea di più suoni, intonati da strumenti vari e dettati da esigenze strutturali ed emotive differenziate, nel dominio incontrovertibile di sondare ritmi diversi di luce e di spazio. L’esigenza è, allora, di individuare i criteri sintattici che regolano e gestiscono tali incontri simultanei.
Le xilografie riunite in cartella quale equivalente visivo delle Quattro poesie di Ingeborg Bachmann, (“un ensemble concertant” di testi e di immagini, per usare un’espressione di Henri Matisse), stampate per le edizioni della Galerie Monika Hoffmann di Paderborn nel 1997, sono il risultato di un lavoro iniziato nel 1994. In Ombre Rose Ombre segni bianchi in fuga, accelerati nel ritmo ondulato e aggrovigliato, irrompono da un nucleo di luminosità compatta (su cui risalta la scrittura stampata a rilievo, a secco, del testo) e scendono dall’alto di un cielo “estraneo”, mentre in basso, linee rarefatte si distendono lente, pausate, sull’ombra lunga della terra “estranea”. Resta propone un incastro precario di carte, topografie variegate, texture che si scompaginano, si disperdono nel vento, in un biancore indefinito che conserva frammenti di tracce sfaldate. Infine, una misurata cadenza di rettilinee scie di luce e di rotanti macchie ombrose illustrano il Notturno Romano nel dialogo degli orizzonti.
Una splendida, inedita icona della luce è lo studio per Luce di testa: entro nicchie concentriche, modulate chiaroscuralmente, da un alone bianco scattano in tensione ascensionale netti raggi luminosi, vene d’argento di spirituale intensità. Ed ancora Scia, nei forti contrasti di neri e di bianchi, e nelle fitte crettature, si impone come a racchiudere una sorta di monolito stellare di luce rappresa, solidificata.
Inquieta e drammatica è la serie di Schnitte ove la luce è come soffocata: inghiottita nei gorghi lineari precipitanti o allontanata da muri di aste pungenti o soppressa da un nero sempre più ampio e cupo, intersecato da segni altrettanto minacciosi e rigidi, o racchiusa, imbrigliata in foschi incroci ravvicinati, sbarre intrecciate di funesta presenza, memoria perenne di atroci colpe, ricorrenti nel sonno della ragione.
Raffinata per la tremolante sensibilità segnica, per i delicati rapporti di trasparenze ritmico-luminose è Vathià, con il lieve scarto di piani che sfondano: è un evento sottratto al flusso del tempo e restituito in un’immagine lirica che pare ricordare i ritmi instabili dei rivoli della pioggia sui vetri bagnati.
Segni e trame sono, talora, oggetto di energie contrastanti, centrifughe e centripete, o di calamitanti attrazioni che definiscono improbabili cespugli, morbidi o ispidi, ipotetici astri, nebulose sconosciute, percorsi ellissoidali e Scritture rotanti, dai contorni gradualmente sfumanti, immersi in una luce diffusa, in una dimensione atmosferica, o concentrati attorno ad un nucleo denso, in cui il nero risalta in tutta la luminosità del colore evidenziandosi non come buco ma come magma possente da cui emerge a piccoli sprazzi la luce. Analogamente in una realtà spaziale pulsante si muovono Le foglie del decoro: dal centro buio insoliti segni si irradiano in orbite irregolari, a ventaglio, svanendo nella lontananza di una luce evanescente, atomizzata.
Flusso ritmico dà vita a una melodia malinconica nel lento, obliquo procedere di un percorso in salita senza fine, come un andare, un viaggiare cadenzato da soste di neri, macchie graduate nell’estensione, mentre in alto e in basso una luce più nitida è toccata da tracciati interrotti e da sottili pulviscoli di terra che costruiscono echi contrappuntistici sfalsati e variati nell’intensità della durata e della altezza della nota.
Spartito acuminato offre una inquieta composizione sinfonica con battute luminose e accenti chiaroscurati, esaltati da una costruzione ritmica intermittente nella bipartizione verticale, ulteriormente dinamizzata dall’acuta tensione delle nette corde, vettori di risonanze pungenti. In una composizione orizzontale analoghe compenetrazioni di moduli strutturali leggermente differenziati conferiscono a Spartito d’acqua una maggiore luminosità centrale oscillante.
Spartito ovale costituisce una variazione su tema connessa a una variazione del campo d’azione. Su tessiture finissime, interrotte e quasi evanescenti, affiora nel primo tempo una trama lieve, scura, che definisce un ovale allungato percorso da segmenti bianchi, rialzi luminosi in un contrasto tenuemente modulato. Un ovale spezzato vive, nel secondo tempo, di una dialettica ritmica più dinamica e serrata: i segni acuti, con assetti triangolari o sbilenchi, lo invadono mentre ai margini esso è rinserrato tra battute luminose, in libera frequenza, divise da segmenti perentori. Un contrasto chiaroscurale più forte sostanzia il terzo tempo: la forma ovale pare solidificarsi al centro del campo, con una stratificazione irregolare ma coesa; attraversata da schegge luminose è incastonata in una griglia verticale obliqua con battute non omogenee. Marina pare riflettere su una successione di eventi. Dopo un sommovimento sismico che ha scardinato un telaio compositivo, frantumandolo in un caotico disordine, ella procede a ricomporre le cellule superstiti in nuove figure che, negli incontri-scontri delle tessere costruttive, nei contrappunti franti mettono in atto equilibri differenziati nell’irregolarità dei serrati incastri. E’ un trittico che dice il divenire delle cose, anche con inflessioni organiche nella forma che passa da uno stato all’altro, che non si concede al caso ma cerca nuove sintesi strutturali e che ad un disordine “perfetto” sostituisce un ordine “imperfetto”. Il luogo della disseminazione, dell’esplosione di segni diviene il luogo della genesi di una serie di gesti che controllano l’emergere di immagini ovali dai ritmi accidentati, esaltati dai contrasti di evanescenza e solidificazione, di accelerazione e decelerazione.
Diversamente segni minuti, tracciati puntinati, segni spaziali di onde sonore, intessono un dialogo A due voci con una luminosità che si spazializza intensificandosi al centro in un alone ellissoidale verticale, mentre in A due voci II una griglia orizzontale, con ritmo ondeggiante alternato, impostata sull’asse verticale del campo, viene contraddetta da un altro motivo di anelli che si espandono.
Sono questi soltanto alcuni degli esiti del ricercare di Marina, del suo meraviglioso laboratorio alimentato da curiosità, da ingegno e fantasia. Estranea ad arbitrii effimeri o a seduzioni facili, Marina usa la stessa energia nello scavo materiale della lastra e nello scavo spirituale in sé stessa per scovare i pensieri e le emozioni più segrete. Le sue pagine incantate dai ritmi della luce, le sue partiture inquiete, le sue scritture spaziali, i suoi contrappunti franti costituiscono meravigliosi momenti del processo di chiarificazione della propria operatività e della forza rigeneratrice della conoscenza, espressione della tensione verso la qualità “differente” dell’arte. La compenetrazione tra il fare, il pensare e l’immaginare, nell’esercizio di un controllo autocritico, è una scelta coraggiosa dettata dall’urgenza e dal desiderio di scoprire nuovi saperi percettivi con l’invenzione di forme che, pur evocando, talora, memorie di fenomeni naturali, pervengono alla presentazione poetica di altre realtà.
Rosalba Zuccaro