Guido Strazza – galleria il bulino 2004
Testo catalogo Marina Bindella 2004
Guardando i lavori di Marina Bindella la prima sensazione d’impatto è di assistere a un evento, di avere la visione di qualcosa che si rivela all’accadere. Si ha la percezione quasi fisica di energia in atto che lascia per un momento in sospeso il sapere da dove emani; se dai neri compatti e profondi, o dai bianchi abbaglianti e dal loro fitto contrapporsi e compenetrarsi, o semplicemente dall’essere lì a contendersi con complice determinatezza la definizione e il dominio di uno spazio che non ha misura. Ma quel momento vola via e presto si intuisce, si sa, che l’anima cuore pulsante di quello spazio è la luce. Luce totale e totalizzante che si comprime nel nero fino a scoppiare nell’estrema dilatazione di un bianco che mai potremo pensare come vuoto. E nemmeno vederlo come vuoto perché è lì, in quegli spazi tersi e tesi, che si preannuncia e affiora la fitta trama cristallina dei segni minimi che tutto ordinano e sostengono e dai quali ogni forma prende ragione rivelandoci che tutto ciò che vediamo viene come da un prima e da lontano, dai confini di un invisibile progetto che prevede e aspetta di essere riconosciuto.
Facciamo un’ipotesi. Immaginiamo che tutto ciò che vediamo si immobilizzi d’improvviso e che nulla, né un’ombra, né un filo d’erba si muova più e rimanga come fissato nella sua forma istantanea, sospesa tra un prima e un dopo che cessando di essere reali si fanno puro concetto, sentimento di attesa e desiderio: idea della realtà in quanto pulsione verso qualcos’altro di sé. Come dire paradossalmente eternità di un istante. Ma istante sempre ripetuto, quello del nostro guardare che l’artista fa suo drammaticamente perché non può che farlo in modo radicalmente consapevole e definitivo.
Sono questi i termini nei quali Marina gioca tutta la sua partita liberando con forza e pazienza l’energia dell’improvvisa illuminazione dei suoi fogli. E non si può non pensarlo, perché lo fa usando e immedesimandosi in una tecnica che è sì tecnica di grande e impegnativa tradizione, ma è anche, prima ancora, tecnica del togliere, del mostrare ciò che si libera dal superfluo, tecnica e poetica del fare come riconoscere e in questo fonda la più autentica e necessaria modernità.
Guido Strazza