Giuseppe Appella – galleria il bulino 2004
I LABIRINTI DI MARINA BINDELLLA
Giuseppe Appella
Qui serait (excusez moi)
comme un filtre d’amour.
Vieira da Silva
I titoli che Marina Bindella lega alle sue opere, siano esse xilografie, disegni o acquarelli, rendono evidente un telaio compositivo, ovvero una struttura unitaria poeticamente allusiva all’idea di una situazione e tale da destinarla su percorsi privi di quel filo che, entrati nel labirinto, possa, dopo molteplici tragitti e altrettante illusorie uscite, ricondurre a un punto di fuga, a un precipizio, allo spazio vuoto di un candido foglio di carta.
Il segno si sostituisce al segno o lo moltiplica rivestendo internamente la linea retta con serti di linee diagonali e una gerarchia di piani minuziosamente controllati, si protende verso una immagine per non afferrarla, accelera il passo che non si fa impronta, traccia, nodo ma cespuglio, fessura, volo, scia, deriva, abisso, marea.
Senza indecisioni e senza pentimenti, Marina Bindella procede dal basso verso l’alto, da destra verso sinistra, su piste note solo a lei, che spesso non vediamo o abbandoniamo al primo ostacolo, per esempio davanti all’oggetto che si materializza per fulminei bagliori, inattesi richiami, eccitazioni improvvise, forzate rinunce, cadenze estenuate, affinità segrete, giochi d’arabeschi, movimenti ripetibili e addizionabili.
Antefatti ed esiti dell’incisione si rendono disponibili alla struttura immaginativa del disegno e dell’acquarello con elementi dissimili che vedono prevalere ora l’apparato scenografico ora un reticolato che rasenta il dinamismo futurista, il lirismo orfico, la disciplina di Villon, la contemplazione di Tobey, le proliferazioni di Kemeny.
I piccoli quadrati, le losanghe, le maglie fitte, i grani che mimano a oltranza solitudini stellari e improbabili galassie, organizzano con cura la composizione partendo da studi di tipo naturalistico, ritmandone gli elementi intorno a linee di intenzione; costruiscono le forme inseguendo, anche solo per intuito, il principio della visione piramidale di leonardiana memoria. Solchi sottili, ferite, screpolature, aghi, cristalli, divorati dalla luce, si agitano nello spazio, si raggruppano e ammassano, assumono aspetti allucinanti di espansione, trovano il loro vertice nel nostro occhio e la base nella sezione dell’oggetto proposto con rapidi concentramenti di forze.
Questa visione, come é logico, insegue una progressione che non rifiuta schemi unitari affidati a prospettive frontali necessarie per decomporre l’oggetto, liberare particelle e frammenti di una dilatazione organica fatta evoluzione formale nutrita dalla mutazione emotiva, dal modo di penetrare nella larvale instabilità di un universo necessario di regole e di riflessioni per poter fluire all’infinito e acquisire una maggiore poesia attraverso equivalenze interiori capaci di esprimere l’essenza delle cose piuttosto che i loro attributi apparenti.
Ne deriva, allora, una sorta di vocazione all’ordine e alla chiarezza, alla ricerca aperta, la persistente riproposizione di un itinerario che dalla tenebra conduca alla luce, che risorga ogni volta dai propri passaggi e non da configurazioni logorate dall’uso.