Arianna Mercanti – galleria il salice – Locarno 2009
Presenze ed apparizioni tra i segni
“una città, una campagna, da lontano sono una città o una campagna;
ma quanto più ci avviciniamo, son case, alberi, tegole, foglie, erbe,
formiche, zampe di formiche all’infinito”
(B. Pascal, Pensieri)
Osservando le opere di Marina Bindella si offrono allo sguardo spazi complessi, immoti e al tempo stesso oscillanti. Il valore delle corrispondenze si svela nelle tessiture dove la luce si capovolge nell’ombra, generando profondità diverse, prive di una direzione univoca. La superficie si fa mutevole, sovrappone e disgiunge la forma in giochi di correlazioni impreviste, mentre il ritmo, continuo e inafferrabile, amplifica le interferenze tra i piani. In assenza di campiture piatte il bianco e il nero si fronteggiano e si compenetrano senza delimitazione lineare: l’immagine cresce, infatti, per trasformazioni, differenze e discontinuità tra i segni, dallo spessore esile o forti e incisivi dai profili netti, in una sorta di “metamorfosi del discreto”i. Tra l’uno e l’altro l’organizzazione che si instaura non è mai meramente additiva poiché nell’interazione ciascuna traccia realizza se stessa per poi alterare l’identità di quelle contigue. E’ come se Marina Bindella cercasse di “di andare più lontano nella stessa direzione, come se ogni passo fatto esigesse e rendesse possibile un altro passo”ii. Le variazioni aumentano col procedere del lavoro, attraverso un’azione circoscritta tra matrici, bulini e sgorbie – svolta lentamente, nella consapevolezza di ogni scarto espressivo – in cui l’immaginazione fissa rarefazioni e addensamenti, nebbie e chiarori, evocando forme espanse in pulviscoli o arginate in tracciati ortogonali.
Ad esempio in Vathià le iridescenze dai bagliori vitrei compongono accordi lievi, dando vita ad un’immagine tersa che si dilata progressivamente, al di fuori dei margini del foglio. Al contrario in Studio per terre nere lo spazio avanza e recede con cadenze serrate, mentre il nero riscatta gli spazi interstiziali che sopravvivono nel bianco della carta, facendoli entrare nel ritmo della composizione. Il pensiero visivo si reinventa in Durch die zum Kamm gespaltene Erde dove la frammentazione – o meglio implosione – delle ripartizioni quadrangolari non nasce da una deflagrazione della forma, ma da una nuova configurazione della luce. E’ la rapidità delle frequenze luminose a definire e fissare i rapporti, ad aprire la simmetria a giochi di leggeri squilibri in uno spazio che si flette e si incurva nelle forze coesive della texture. In altre opere invece, tra cui Scompaginato e Sguardo incerto, la tensione si stringe nell’urto tra elementi dinamici opposti ad una fissità strutturale, quasi a semplificare la composizione nella sua ossatura e, viceversa, complicarla nella sua superficie. Qui l’incrocio tra direttrici verticali e orizzontali non forma argini da riempire, ma crea una rete di relazioni dove pieni e vuoti – inversioni tra pesi e gravità – avvolgono la geometria nel lirismo. Una geometria apparente, non euclidea, colta allo stato “nascente” nella sua qualità prima di appropriazione dello spazio in cui un quadrato si interroga sull’equilibrio perfetto che lo connota – ripete se stesso, diviene eccentrico – reinventando la propria posizione nello spazio. Oppure in Chiaroscuro II i segni corrono longitudinalmente per inseguire verticali immaginarie, creando un contrasto ritmico che si rafforza nelle pagine del libro Poesie Verticali “dove i rapporti formali sono in continua metamorfosi: ad esempio una pagina, singola o doppia, a prima vista autosufficiente, può, spiegando il foglio estendersi in larghezza” fino a giungere nella grande immagine centrale a “un polittico a quattro facce, ciascuna stampata a due lastre con due blu diversi, entrambi profondi e vellutati, unite a formare un motivo continuo, increspato, si direbbe acquatico”iii.
Gli stessi titoli se letti in sequenza sottraggono il senso dai percorsi consueti per condurlo verso visioni interiorizzate, persistenti ed efficaci, quanto impalpabili. L’assenza enunciativa delle parole rispecchia il mondo che abita le stesse opere dove le logiche si sottraggono a giochi di inferenze per evocare i luoghi invisibili dell’emozione estetica. Così linee nitide, al contempo fluide nelle loro curvature, sembrano trattenere la luce nelle profondità insondabili di un abisso – per poi condurci nella rêverie di un mondo capovolto – oppure la scia dinamica di un passaggio pulviscolare spinge le diagonali, mutevoli come la traccia di un movimento, verso di noi, conducendo lo spazio ad estroflettersi verso l’esterno.
Nella ricerca di possibili equivalenze tra le forme la connessione, nel segno, tra significante e significato si perde e lo sguardo libero dal dato referenziale sollecita la nostra l’immaginazione ad individuare nuovi rapporti, opposizioni e corrispondenze tra le opere. E’ come se nella “desuetudine degli oggetti”iv l’immagine potesse far ritorno a se stessa, a quell’alfabeto di forme che si deposita nella coscienza prima che la realtà abbia assunto un nome dove le presenze diventano apparizioni e dove il linguaggio precede l’osservazione, diventando espressione.
Arianna Mercanti