Tiziana D’acchille galleria porta latina 2013

 In Testi Critici

Il Microcosmo di Marina Bindella
Tiziana D’acchille

Sul finire del IV secolo d.C., nella città di Alessandria d’Egitto la filosofa Ipazia studiava il movimento dei corpi celesti e fu probabile autrice di un Canone Astronomico. Una tra le donne più sapienti e illuminate del mondo antico, la filosofa alessandrina aveva intuito che le teorie sulla natura del Cosmo potevano celare una verità nuova, raggiungibile non solo mediante i processi logici consueti, ma anche e soprattutto grazie a una forma di ricostruzione intuitiva di quelle dinamiche. Le speculazioni astronomiche di Ipazia causarono la sua persecuzione, culminata con una condanna a una morte crudele, ma contribuirono certamente a tracciare la via per la moderna comprensione della struttura dell’Universo.

Tra il 1141 e 1150 in un piccolo monastero della Renania la badessa Hildegard Von Bingen componeva il Liber Scivias, un compendio che dava forma alle numerose visioni di natura cosmologico-mistica di cui la santa era investita. Il Liber Scivias (Scio Vias, ossia conosco le strade del Signore) è un’opera unica, visionaria, filosofica, musicale e artistica al tempo stesso. Le illustrazioni con cui Hildegard corredò la descrizione delle visioni ci mostrano un cosmo ordinato secondo ritmo, misura e colore. In esse troviamo immagini di orbite celesti, di stelle, e l’uomo come canone d’elezione del mondo così strutturato. I colori di Hildegard sono meravigliosamente astratti, così come lo sono i cieli stellati e le fiamme che avvolgono le sfere celesti concentriche. Hildegard non è stata la sola a tentare di dar forma visibile a un mondo che si immaginava sovrastante la terra, ma certamente è stata una delle poche ad averci trasmesso il concetto di un universo variopinto e multiforme, in qualche modo curiosamente vicino alle strutture mandaliche dell’antico induismo. Molti sono stati i contemporanei di Hildegard che hanno pensato in forma visibile l’idea di macrocosmo, ma raramente troviamo in quel tempo immagini di altrettanta potenza visionaria, efficacia descrittiva e incredibile modernità.

Mi sono sempre chiesta se esistano oggi figure così umilmente dedite alla speculazione filosofica che siano vicine per modi e per grandezza ai mistici medievali e se fosse ancora possibile ritrovare nell’ambito di una qualche forma di ricerca, artistica o scientifica, lo stesso spirito autenticamente pionieristico di personaggi straordinari come Ipazia o Hildegard, e ho sempre fatto fatica a darmi una risposta. La pratica immaginifica della ricerca, così come la speculazione incessante su aspetti apparentemente minimi del mondo delle forme sembrano appartenere ormai a un tempo lontano, mentre forse solo l’aspetto dell’indagine laboratoriale è confluito nel campo delle discipline scientifiche come la matematica o la fisica delle particelle. Senza dubbio non esiste più un’attitudine come quella di Hildegard, che portava a rappresentare il mondo delle forme cosmiche, ripercorrendone i moti interni e ricostruendone la genesi, immaginando strutture cosmologiche caleidoscopiche e variopinte.

Nonostante il nostro nuovo millennio, e con esso anche il secolo passato, ci abbiano regalato figure di autentiche sperimentatrici in campo scientifico, è difficile trovare personalità nel modo delle arti visive così profondamente legate a una pratica quotidiana ai limiti dell’ascesi e della mistica. Esistono però alcune autorevoli eccezioni: è di questi giorni la notizia della scomparsa di Maria Lai, donna e artista di grandissimo spessore, portatrice di un messaggio innovativo e unico nel suo genere che l’ha vista impegnare un’intera vita nel comporre e ricomporre tracciati e architetture, ricalcando così le orme di antiche tecniche come la tessitura e il ricamo, peculiari della sua terra d’origine, la Sardegna.

Ecco, tra le artiste contemporanee che più si avvicinano all’ideale speculativo che abbiamo descritto sinora c’è senza dubbio Marina Bindella.

Come Maria Lai, anche Marina Bindella intesse con la padronanza assoluta del segno inciso, tracciato o graffiato, trame immaginarie, mentali, cosmologiche, che di volta in volta appaiono alla sua mente con la forza della visione di Hildegard e con la stessa energia primordiale del movimento cellulare e della materia organica in eterno movimento.

Non ci sono progetti monumentali nel mondo di Marina: non ci sono violente sterzate che annullano d’un colpo ricerche pluriennali, non ci sono traumi. Ogni cambiamento nel suo lavoro è impercettibile e macroscopico al tempo stesso: l’introduzione di un cromatismo può rappresentare una vera e propria rivoluzione nel suo ordinato cosmo, come pure la natura di un segno: ora vibrante, ora netto e tagliato implacabilmente, ora lieve e apposto in più e più strati a formare un’impercettibile tessitura. Sono variazioni minime e massime al tempo stesso, e non c’è in questo aspetto solo il riflesso ineluttabile delle tecniche incisorie rigorose come il bulino o la xilografia. È tutto del suo carattere che mi ricorda la grande mistica tedesca: la ricerca portata avanti nel ristretto hortus conclusus del suo studio, l’indagare per anni senza mai considerare del tutto esaurito alcun filone formale, il ricreare con sempre rinnovata meraviglia ogni virata di movimento, cercando di riprodurlo sui supporti in un tentativo quasi sovrumano di controllo di migliaia di segni.

Non solo corpi celesti, dunque, ma anche le forme naturali, quelle che dall’infinitamente grande scendono vertiginosamente verso l’infinitamente piccolo sono spesso oggetto di speculazione: le trame sottili e fragili di una foglia rivelano trabecolature simili a un merletto, le vibrazioni della superficie di uno specchio d’acqua concorrono a definire un più grande flusso ondulatorio, le volute spiraliformi di un vortice d’aria nascondono un movimento corpuscolare convulso. C’è nell’opera della Bindella una sorta di anelito speculativo che la porta a trasformare ogni aspetto o oggetto del mondo reale in un composto organico da scomporre e analizzare come un vetrino visto da una lente da microscopio. Con questo spirito tutto può nascondere una sorpresa stupefacente, un microcosmo delle meraviglie dove gli elementi, pur mantenendo la loro natura, diventano trasfigurati e ci mostrano la loro natura nascosta, dinamica e multiforme.

Anche il suo lato più lirico e intimista, quello che trova nel mezzo dell’acquarello la sua forma più adeguata, è così strettamente imparentato con l’universo onirico della fiaba che trasforma ogni fondo cromatico in una tessitura luminosa unica.

Un altro aspetto fondamentale della ricerca della Bindella è quello legato all’universo dell’armonia, o più precisamente della musica e della luce. Di questi elementi profondamente connessi ritroviamo le tracce nei titoli delle sue opere: partiture, ritmi, spartiti, e poi anche ombre, oscurità, raggi di luce.

È proprio nel lungo transito tra tarda antichità e mondo moderno che si fa strada l’idea che gli astri generino musica dai loro movimenti: la melodia ottenuta dalla vibrazione e dalla rotazione delle orbite celesti concentriche è un aspetto ricorrente nella bellissima trattatistica medievale che, con uno sforzo di immaginazione incredibile, coniuga scoperte e saperi del mondo classico e del vicino oriente antico con la teologia cristiana. Puntualmente ritroviamo anche questo aspetto nelle ultime opere che oggi ammiriamo in mostra: flussi di segni vibranti sembrano descrivere un movimento euritmico e musicalmente armonico, in accordo con la contemporanea teoria della doppia natura della luce.

Una luce-materia che è a sua volta ottenuta mediante la stratificazione di innumerevoli segni controllati magistralmente. Nel nuovo ciclo di color giallo cadmio che appare in questa mostra sembra proprio che la riflessione sulla luce che la Bindella opera da tempo sia giunta a un livello più alto e illuminato, quello della descrizione delle componenti essenziali della luce solare. Osserviamo flussi di corpuscoli vibranti spostarsi con un movimento micro-ondulatorio verso una direzione che per Marina è tutta mentale, ogni volta ricostruita entro lo spazio contenuto di una formella. Quasi a seguire metodicamente un’idea di ricostruzione, le diverse tavole modulari che tanto sono protagoniste in questa mostra sono composte secondo un criterio che le riassembla in insiemi organici: sono visioni solo apparentemente sorelle, ma in fondo sono lì a raccontarci di mondi distanti anni luce tra loro.

Sul finire del IV secolo d.C., nella città di Alessandria d’Egitto la filosofa Ipazia studiava il movimento dei corpi celesti e fu probabile autrice di un Canone Astronomico. Una tra le donne più sapienti e illuminate del mondo antico, la filosofa alessandrina aveva intuito che le teorie sulla natura del Cosmo potevano celare una verità nuova, raggiungibile non solo mediante i processi logici consueti, ma anche e soprattutto grazie a una forma di ricostruzione intuitiva di quelle dinamiche. Le speculazioni astronomiche di Ipazia causarono la sua persecuzione, culminata con una condanna a una morte crudele, ma contribuirono certamente a tracciare la via per la moderna comprensione della struttura dell’Universo.

Tra il 1141 e 1150 in un piccolo monastero della Renania la badessa Hildegard Von Bingen componeva il Liber Scivias, un compendio che dava forma alle numerose visioni di natura cosmologico-mistica di cui la santa era investita. Il Liber Scivias (Scio Vias, ossia conosco le strade del Signore) è un’opera unica, visionaria, filosofica, musicale e artistica al tempo stesso. Le illustrazioni con cui Hildegard corredò la descrizione delle visioni ci mostrano un cosmo ordinato secondo ritmo, misura e colore. In esse troviamo immagini di orbite celesti, di stelle, e l’uomo come canone d’elezione del mondo così strutturato. I colori di Hildegard sono meravigliosamente astratti, così come lo sono i cieli stellati e le fiamme che avvolgono le sfere celesti concentriche. Hildegard non è stata la sola a tentare di dar forma visibile a un mondo che si immaginava sovrastante la terra, ma certamente è stata una delle poche ad averci trasmesso il concetto di un universo variopinto e multiforme, in qualche modo curiosamente vicino alle strutture mandaliche dell’antico induismo. Molti sono stati i contemporanei di Hildegard che hanno pensato in forma visibile l’idea di macrocosmo, ma raramente troviamo in quel tempo immagini di altrettanta potenza visionaria, efficacia descrittiva e incredibile modernità.

Mi sono sempre chiesta se esistano oggi figure così umilmente dedite alla speculazione filosofica che siano vicine per modi e per grandezza ai mistici medievali e se fosse ancora possibile ritrovare nell’ambito di una qualche forma di ricerca, artistica o scientifica, lo stesso spirito autenticamente pionieristico di personaggi straordinari come Ipazia o Hildegard, e ho sempre fatto fatica a darmi una risposta. La pratica immaginifica della ricerca, così come la speculazione incessante su aspetti apparentemente minimi del mondo delle forme sembrano appartenere ormai a un tempo lontano, mentre forse solo l’aspetto dell’indagine laboratoriale è confluito nel campo delle discipline scientifiche come la matematica o la fisica delle particelle. Senza dubbio non esiste più un’attitudine come quella di Hildegard, che portava a rappresentare il mondo delle forme cosmiche, ripercorrendone i moti interni e ricostruendone la genesi, immaginando strutture cosmologiche caleidoscopiche e variopinte.

Nonostante il nostro nuovo millennio, e con esso anche il secolo passato, ci abbiano regalato figure di autentiche sperimentatrici in campo scientifico, è difficile trovare personalità nel modo delle arti visive così profondamente legate a una pratica quotidiana ai limiti dell’ascesi e della mistica. Esistono però alcune autorevoli eccezioni: è di questi giorni la notizia della scomparsa di Maria Lai, donna e artista di grandissimo spessore, portatrice di un messaggio innovativo e unico nel suo genere che l’ha vista impegnare un’intera vita nel comporre e ricomporre tracciati e architetture, ricalcando così le orme di antiche tecniche come la tessitura e il ricamo, peculiari della sua terra d’origine, la Sardegna.

Ecco, tra le artiste contemporanee che più si avvicinano all’ideale speculativo che abbiamo descritto sinora c’è senza dubbio Marina Bindella.

Come Maria Lai, anche Marina Bindella intesse con la padronanza assoluta del segno inciso, tracciato o graffiato, trame immaginarie, mentali, cosmologiche, che di volta in volta appaiono alla sua mente con la forza della visione di Hildegard e con la stessa energia primordiale del movimento cellulare e della materia organica in eterno movimento.

Non ci sono progetti monumentali nel mondo di Marina: non ci sono violente sterzate che annullano d’un colpo ricerche pluriennali, non ci sono traumi. Ogni cambiamento nel suo lavoro è impercettibile e macroscopico al tempo stesso: l’introduzione di un cromatismo può rappresentare una vera e propria rivoluzione nel suo ordinato cosmo, come pure la natura di un segno: ora vibrante, ora netto e tagliato implacabilmente, ora lieve e apposto in più e più strati a formare un’impercettibile tessitura. Sono variazioni minime e massime al tempo stesso, e non c’è in questo aspetto solo il riflesso ineluttabile delle tecniche incisorie rigorose come il bulino o la xilografia. È tutto del suo carattere che mi ricorda la grande mistica tedesca: la ricerca portata avanti nel ristretto hortus conclusus del suo studio, l’indagare per anni senza mai considerare del tutto esaurito alcun filone formale, il ricreare con sempre rinnovata meraviglia ogni virata di movimento, cercando di riprodurlo sui supporti in un tentativo quasi sovrumano di controllo di migliaia di segni.

Non solo corpi celesti, dunque, ma anche le forme naturali, quelle che dall’infinitamente grande scendono vertiginosamente verso l’infinitamente piccolo sono spesso oggetto di speculazione: le trame sottili e fragili di una foglia rivelano trabecolature simili a un merletto, le vibrazioni della superficie di uno specchio d’acqua concorrono a definire un più grande flusso ondulatorio, le volute spiraliformi di un vortice d’aria nascondono un movimento corpuscolare convulso. C’è nell’opera della Bindella una sorta di anelito speculativo che la porta a trasformare ogni aspetto o oggetto del mondo reale in un composto organico da scomporre e analizzare come un vetrino visto da una lente da microscopio. Con questo spirito tutto può nascondere una sorpresa stupefacente, un microcosmo delle meraviglie dove gli elementi, pur mantenendo la loro natura, diventano trasfigurati e ci mostrano la loro natura nascosta, dinamica e multiforme.

Anche il suo lato più lirico e intimista, quello che trova nel mezzo dell’acquarello la sua forma più adeguata, è così strettamente imparentato con l’universo onirico della fiaba che trasforma ogni fondo cromatico in una tessitura luminosa unica.

Un altro aspetto fondamentale della ricerca della Bindella è quello legato all’universo dell’armonia, o più precisamente della musica e della luce. Di questi elementi profondamente connessi ritroviamo le tracce nei titoli delle sue opere: partiture, ritmi, spartiti, e poi anche ombre, oscurità, raggi di luce.

È proprio nel lungo transito tra tarda antichità e mondo moderno che si fa strada l’idea che gli astri generino musica dai loro movimenti: la melodia ottenuta dalla vibrazione e dalla rotazione delle orbite celesti concentriche è un aspetto ricorrente nella bellissima trattatistica medievale che, con uno sforzo di immaginazione incredibile, coniuga scoperte e saperi del mondo classico e del vicino oriente antico con la teologia cristiana. Puntualmente ritroviamo anche questo aspetto nelle ultime opere che oggi ammiriamo in mostra: flussi di segni vibranti sembrano descrivere un movimento euritmico e musicalmente armonico, in accordo con la contemporanea teoria della doppia natura della luce.

Una luce-materia che è a sua volta ottenuta mediante la stratificazione di innumerevoli segni controllati magistralmente. Nel nuovo ciclo di color giallo cadmio che appare in questa mostra sembra proprio che la riflessione sulla luce che la Bindella opera da tempo sia giunta a un livello più alto e illuminato, quello della descrizione delle componenti essenziali della luce solare. Osserviamo flussi di corpuscoli vibranti spostarsi con un movimento micro-ondulatorio verso una direzione che per Marina è tutta mentale, ogni volta ricostruita entro lo spazio contenuto di una formella. Quasi a seguire metodicamente un’idea di ricostruzione, le diverse tavole modulari che tanto sono protagoniste in questa mostra sono composte secondo un criterio che le riassembla in insiemi organici: sono visioni solo apparentemente sorelle, ma in fondo sono lì a raccontarci di mondi distanti anni luce tra loro.

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